Frank Zappa. Naviga gli ottanta

By Paolo Bertrando

Il Mucchio Selvaggio, November 1984


Non servirebbe a molto parlare di una seconda giovinezza: siamo già già ben oltre. Meglio prendere a prestito le proverbiali sette vite dei gatti. Lui poi qualcosa di felino continua ad averlo, non fossero altro che gli immutabili (almeno loro) mustacchi neri. Più giovane che mai, praticamente inossidabile,

FRANK ZAPPA
NAVIGA GLI OTTANTA

su una rotta che Paolo Bertrando ha provato a tracciare per iscritto.

 

Con l'età (armai gli anni sono 43), Frank Zappa s'è come consolidato. Abbandonati i panni del giullare aggressivo, ha preso a indossare camicie bianche, ad apparire impeccabile, a rilasciare interviste secche e fredde come teoremi algebrici. E ha continuato, s'intende, a scrivere, arrangiare, suonare e pubblicare musica, in misura forse maggiore che mai; proprio all'età in cui il tipico artista rock tende ad adagiarsi sugli allori e appender la chitarra al chiodo – oppure, se non lo fa, gli viene caldamente consigliato. Ma per Zappa simili discorsi non valgono. Tant'è vero che negli ultimi cinque anni ha prodotto ben nove opere ufficiali, per complessivi quindici dischi, senza contare una messe sterminata di pubblicazioni semiautorizzate o clandestine.

Ora, è assolutamente superflue chiedersi se per l'appassionato di rock vale la pena di ben conoscere Frank Zappa: la sua importanza è da considerarsi scontata. Conviene invece chiedersi il perché, e anche chiedersi se quest'ultimo Zappa è degno d'interesse quanto quelle dei quindici anni passati.

Perché Zappa, prima di tutto. Bollato, nei primi anni, della definizione di musicista oltraggioso e protestatario, l'ex-leader delle Mothers of Invention s'è rivelato sulla distanza per uno dei rockmen più colti e fantasiosi mai entrati sulla scena. Più che semplice trasgrgssore, Zappa è sempre stato un paladino della lotta alla banalità. Come ha dichiarato nell'80 alla rivista Musician: «America Drinks And Goes Home (in Absolutely Free) è una parodia altamente scientifica del genere jazzistico banale. È cosi sottile che quasi non ci si accorge che è una parodia. Non è una brutta canzone. Tutta l'essênza di quel genere di musica è quella stupida progressione di seconda-quinta-prima, in cui tutto è modulato intorno a quelle tre note. Ecco, il mio era un esercizio d'imbecillità in seconda-terza-prima

Ma Zappa non si ferma qui. Molto più che un satire (etichetta da lui fermamente rifiutata), è tra i personaggi che più hanno fatto per superare il data fondamentale del rock: l'immediatezza. Assieme a Wyatt, Fripp, Beefheart, Eno, Residents e cosi via, ha proceduto alla costruzione d'un rock strettamente gerarchico, cerebrale, che mentre insegue vette espressive tratte dalla tradizione classica occidentale non viene meno agli imperativi irrinunciabili del rock: piacere, fruibilità estesa, movimento. E le sue opere si sono via via ramificate, con arrangiamenti sempre più ricchi e complessi. Al primitivo rock chitarristico si sono aggiunti dapprima i fiati, fino aile dimensioni d'una big band, poi l'elettronica, infine addirittura le orchestre: quella, di 40 elementi, di Orchestral Favourites e quella, di ben 102, del recentissimo Zappa/London Symphony Orchestra.

Zappa è, insomma, il maggior creatore di metalinguaggi in campo rock and roll; vale a dire, è il maggiore tra quanti si servono di linguaggi e stili accreditati del rock per condurre un discorso critico. Un discorso di secondo grado, che combatte la banalità con i suoi stessi strumenti. E l'autore ne è perfettamente consapevole; ad esempio, riferendosi al suo Ruben & The Jets, album che «ricreava» nel '68 il rock dei '50, ha detto: «La più stretta relazione tra quell'album e un altro evento artistico in campo diverso è quel punto della sua carriera in cui Stravinsky decise di scrivere musica neoclassica. Si mise a produrre cose corne il Pulcinella – scrivendo musica ne/ proprio tempo, ma usando forme ampiamente fuori moda e disprezzate dalle gerarchie accademiche.»

Fin qui il primo quesito. Ma oggi, a cinque anni dal contratto di Zappa con la CBS, e relativa conversione al mondo degli affari, non manca chi si chiede se la nuova musica zappiana non sia semplice rimasticare vecchie tematiche appena ridipinte a nuovo. La risposta dell'interessato a una domanda simile è stata lapidaria: «Alla tua età, credi ancora a quello che leggi sui giornali?» Ma forse è il caso d'andare un poco più in profondità.

Sheik Yerbouti (1978)

È, questo, un album di cui va studiata attentamente la collocazione. Verso la metà degli anni '70 la stanchezza di Zappa è appariscente, e dischi come Zoot Allures stanno a dimostrarlo. Di fronte aile prospettive stagnanti offerte dalla Warner Bros, l'erratico Frank si converte infine a una multinazionale più battagliera, disposta a garantirgli consistenti coperture pubblicitarie e ossigeno finanziario: la CBS. Sheik Yerbouti si pone cosi come pietra miliare, inizio e simbolo d'un nuovo corso che riporterà Zappa alla ribalta in grande stile; nonostante le prevedibili, durissime reazioni della vecchia casa madre, che si concretano nella contemporanea pubblicazione di tre album. Sleep Dirt, Studio Tan e Orchestral Favourites, con chiaro intento di saturare il mercato, e in una serie di dispettucci ampiamente denunciati da Zappa in tutte le interviste del periodo.

C'è, indubbiamente, una ritrovata grinta, una grande voglia di fare; di graffiare, se necessario. come nella «scandalosa» Jewish Princess. Anche se si avverte (e quello è un dato nuovo) una più conciliante volontà di trovare commercial potential, coronata peraltro da buon successo, se è vero che Sheik Yerbouti resta tuttora l'album zappiano che ha venduto il maggior numero di copie.

Quanto alla musica, si sono persi per strada gli smaglianti «pieni» delle grandi orchestre zappiane, in favore di un suono più scarno. Ma gli ingranaggi d'insieme reggono, e in più c'è lo spiritaccio di Adrian Belew a inserire la sua solista stupefacente e le sue ilari gag, tra cui una memorabile imitazione di Bob Dylan in Flakes. Lo Zappa chitarrista, dal canto suo, ristabilisce le distanze con l'assolo scoppiettante di Rat Tomago, da inserirsi senz'altro tra i suoi migliori.

Zappa si conferma qui definitivamente un vero grande artista della sala d'incisione. Mentre tutte le basi dell'album derivano da registrazioni live, il risultato finale è dovuto a un largo uso di sovraincisioni e arrangiamenti successivi. È grande merito del serafico artista l'aver scrupolosamente annotato, con puntiglio certosino, ogni singolo overdub, aprendo suggestivi spiragli sui proprio metodo. In certi punti, anzi, Zappa si permette anche certi piccoli giochi, spiegando con la massima serietà che un «interessante dialogo basso/batteria» deriva dall'incastro di due concerti differenti, e quindi «non si è mai effettivamente verificato.»

Joe's Garage (1979)

Riccardo Bertoncelli ha coniato per questo triplo concept-album l'azzeccata definizione di «operetta rock»: che ben coglie il carattere semiserio, ma sotto sotto ancora morbidamente ambizioso di tutta l'opera. I tre dischi molto rivelano dell'amore zappiano per l'eccesso, appena temperato dalla decisione di mettere in commercio dapprima l'Act I (in febbraio), quindi gli Acts II & III in forma d'album doppio (ottobre). Munito d'un gruppo ormai amalgamato, con le idee sufficientemente chiare sulla direzione da imprimere alla musica, Zappa lascia che l'idea base di due canzonette (Catholic Girls e Joe's Garage) si dilati a dismisura. raggiungendo un'estensione di circa centoventi minuti.

La storia costruita a legittimazione dell'opera è beffarda e volutamente inconcludente, con la sua idea d'una musica resa criminale corne espediente per attuare la «criminalizzazione totale» della società, con i tanti personaggi mossi sulla scena corne marionette. Ma Frank Zappa ha dalla sua il noto talento d'arrangiatore: Joe, Mary, Father O'Riley e il deus ex machina Central Scrutinizer sono saldamente radicati in un tessuto di rock vigoroso, con bell'ingranaggio di chitarre ritmiche, giusta mole di citazioni, il consueto gioco di marimbas e soprattutto l'intricata orchestrazione vocale. Vinnie Colaiuta, con i suoi tempi spezzati e nervosi, si candida corne uno dei supremi batteristi zappiani, mentre il maestro stesso non disdegna d'imbracciar la chitarra e costruire assoli a conferma della vena ritrovata. li più riuscito di questi resterà nascosto nella melodia ipertrofica, sapientemente contenuta, di Watermelon In Easter Hay.

Quanto ai pezzi singoli, è da dire che, in un'opera che talvolta cede per necessità narrative, sono proprio le stupid songs (di stupidità solo apparente) ad incantare: Catholic Girls, con Zappa in persona a cantare in veste di basso, Sy Borg, e più d'ogni altro A Little Green Rosetta, corale sardonico eppur solare, una sorte di grande giostra con substrato di ferrea disciplina armonica.

Tinseltown Rebellion (1981)

L'intero 1980 trascorre senza nuove da parte di Frank Zappa. Come se le tante novità promesse nelle interviste del '79 fossero destinate a non veder mai la luce. Questo doppio concertistico d'eccellente fattura apre invece un'annata d'imprevedibile prolificità. Come l'autore tiene a precisare, Tinseltown Rebellion è uno dei pochi live mai pubblicati che non sfrutta assolutamente sovraincisioni successive (a parte le due prime canzoni. la cui preparazione è comunque citata in copertina).

A contraddire ulteriormente le scelte consuete della rock star tipo, i pezzi nuovi superano di gran lunga le riesecuzioni di repertorio. Anche se Zappa non si perita d'indulgere a qualche nostalgia recuperando brani risalenti ai primi anni '60, Love of my life e I ain't got no heart, rendendo Brown shoes don't make it con fedeltà filologica, e riarrangiando Peaches en regalia a forza di passaggi stravolti e quasi atonali.

Sfruttando fino in fondo il ricco potenziale del gruppo di Joe's Garage, l'ammiccante Frank s'esibisce in canzoni intrise d'ironia (Blue Light, aulicamente, inizia: «Your Ethos/Your Pathos/Your Porthos/Your Aramis ... »). in dialoghi semiassurdi con un pubblico compiacente (Dance Contest), nei consueti, immaginifici assoli. Ma l'assolo più caricato è quello della steel di Denny Walley in Bamboozled By Love, mentre Bob Harris rinverdisce con i suoi falsetti la tradizione di Roy Estrada.

Ce n'è a sufficienza per confermare la presenza scenica d'uno Zappa più che mai ameno, disteso, divertente. Ed è proprio la fertile rilassatezza a lasciare il segno, mostrando l'artista in quella che è forse la sua migliore versione pubblica: istrionico quasi quanto in Live At The Fillmore, concentrato quanto e più che in Zappa In New York.

You Are What You Is (1981)

Secondo doppio in meno di sei mesi, quest'album è forse la produzione più particolare dell'attivismo 1981 zappiano. Prima di tutto per il formato musicale scelto, con imprevisto ritorno alla canzone treminuti, per un totale di venti pezzi; poi per il trattamento riservato a quelle che in apparenza non sembrano che canzoncine. Tanta che You Are What You Is ha finito per risultare l'album più sottovalutato del periodo, a dispetto della ricchezza delle soluzioni.

L'ascoltatore disattento – o prevenuto – si troverà ad affrontare pezzi facili, carichi di citazioni che vanno dal jazz al country and western, dal rock'n'roll al reggae, fino ai Doors riscritti in If Only She Woulda (e addirittura Goblin Girl riprende certe piccole idiosincrasie delle Mothers circa 1967). Ma quello stesso ascoltatore, se mostrerà costanza sufficiente, resterà ben presto stupefatto di fronte agli arrangiamenti densissimi che stipano lo spazio sonoro di voci e strumenti, corne a concentrare nei pochi minuti di ciascuna song l'universo espanso della musica ordinaria di Frank Zappa.

Il gruppo riprende più o mena quello di Tinseltown, eliminando Warren Cucurullo e sostituendo Colaiuta con un consistente David Logeman; ma aggiunge anche strumenti da tempo insoliti per Zappa, corne oboe, clarinetto, sassofoni, tromba e armonica, e ben otto voci diverse, tra cui gli ex-Mothers Jimmy Carl Black e Motorhead Sherwood. Di tanta dovizia strumentale sono sommersi i semplici terni, con uso di complicati ingranaggi tastieristici, intersezioni ad alta velocità e brevi assoli micidiali; gadget che possono trovarsi riuniti nello stesso passaggio della stessa canzone (si veda Doreen), basata peraltro su classici accordi hard-rock.

È una ripresa del Frank Zappa più apertamente sarcastico, un tuffo nel mondo delle vecchie Mothers, evidentemente tutt'altro che dimenticato. Ma anche un album denso d'invenzioni, tutte in chiave anti-american way of life: al cui servizio avranno anche innovazioni formali, corne l'introduzione di moduli minimali all'interno di purissimi rhythm and blues, o i «richiami» che fondono una canzone all'altra, ottenendo una poderosa coesione.

Shut Up 'N Play Yer Guitar (1981)

lpertrofico, gigantesco, elefantiaco: sono le definizioni d'obbligo per questo triple maestoso. Tre album fitti fitti (messi dapprima in commercio corne opere separate), e di nient'altro che assoli di chitarra: tratti da concerti, da session in studio, spesso estratti di peso da brani più lunghi, sopprimendo il cantato e le sezioni d'assieme. L'ego zappiano si crea un degno palcoscenico, dimostrando in piena libertà un genio chitarristico spesso sottovalutato. Gli analisti più raffinati affermano che Frank Zappa è in grade, su ciascuna delle sue tante chitarre, di passare indifferentemente da una scala temperata a una blues a una modale: e di percorrerle in sequenza nel corso delle stesso assolo.

Le parole con cui Zappa si commenta in copertina, seppure un pochino troppo laudatorie, non si discostano dalla realtà: «Mentre giornali e riviste gridavano le lodi di qualsiasi altro strangolachitarre alla moda e condannavano Zappa per aver il fegato di cantar canzoni a loro giudizio disgustose, lui continuava tranquil/amente a suonare sui suo strumento «cose» di gran lunga più blasfeme di ogni messaggio verbale». Vero, anche se Shut Up non contiene forse i più bei soli in assoluto dell'artista.

Il materiale offerte resta perè di prima scelta, derivato in gran parte dagli anni più recenti, con accompagnamento di Cucurullo, Colaiuta, Barrow e comprimari. Non mancano perè tocchi inconsueti: While Vou Were Out e Stucco Homes sono registrazioni provenienti dalle studio personale di Zappa, effettuate con il solo accompagnamento di chitarra ritmica e batteria; Ship Ahoy, registrato a Tokio, vede un band a quattro membri, con Terry Bozzio alla batteria e Roy Estrada al basso; Canard Du Jour è un'antica, lunga improvvisazione a due, Zappa al bozouki e Jean-Luc Ponty al violine baritono.

Difficile giudicare un'opera tanto ardua, volutamente impervia, il cui ascolto in seduta unica minaccia esasperazione e cefalee anche al più aconsumato. Ma nel complesso. questoppassionato. Certo è che Zappa si trasforma, con quest'operazione, nel miglior tutore del proprio stesso mito, inseguendo apertamente il mercato dei fans e dei cultori. Ma lo fa con classe, e soprattutto con buona musica: chi altri potrebbe offrire emozioni e incredibili effetti melodici in un assola intitolato Variations On The Carlos Santana Secret Chord Progression?

Ship Arriving Too Late To Save A Drowning Witch (1982)

La lunga serie d'eccessi pare a questo punto interrompersi, spezzata da un disadorno album singolo, di durata non superiore a trentacinque minuti, che, corne a ribadire il proprio tono minore, neppure reca in copertina la consueta immagine di Frank Zappa. E chi ascolti la prima metà del disco non potrà evitare gravi delusioni e lamentosi rimpianti per gli sfavilli prepotenti di You Are What You Is. Zappa pare adagiato in canzoncine pop, piccoli commenti di costume, corne a lanciarsi sulla strada dell'effetto facile: No Not Now e Valley Girl risentono d'une sgradevole semplicismo, e a nobilitare I Come From Nowhere non basta un delirante solo di Steve Vai, ennesima scoperta della scuderia zappiana.

A calmare, per il momento, le apprensioni, c'è comunque il lungo brano eponimo, con vocalità dissonanti, complesse intersezioni strumentali, un nuovo assolo all'altezza delle grandi tradizioni. È un excursus di musica iperrazionale, glacialmente precisa, in cui rifulge la maestria della Zappa compositore, qui dedito a inseguire la massima astrazione. Con serietà insolita, che in qualche misura rievoca (pur nella diversissima strumentazione) le prove di Grand Wazoo o Uncle Meat.

È, questo, lo Zappa probabilmente più vicino aile proprie confesse ambizioni, attenta esclusivamente a ricreare i rapporti fra note e fra strumenti. Un musicista che esprime al massimo grade la propria quadratura mentale, costruendo un pezzo in cui dissonanza e complessità non s'esauriscono nell'effettismo né cercano di toccare le corde dell'angoscia, ma generano un piacere tutto intellettuale, una sorta di voluptas cerebri.

The Man From Utopia (1982)

Venuto dopo una tournèe piacevole, che faceva ben presagire per il futuro, quest'album risulta più deludente, concretando le preoccupazioni create dal primo lato di Drowning Witch. Qui davvero risulta uno Zappa a corto d'idee, che si limita a riutilizzare qualche trovata degli album precedenti (voci dissonanti, impasti tastieristici) per montare una serie di canzoni che non si elevano oltre una sostanziale mediocrità.

Poche di queste songs. tra cui Dangerous Kitchen e The Radio Is Broken, si distinguono dal basso tono prevalente. assieme ai brevi strumentali, che recano pur sempre tracce d'un mestiere consumato. Ma nel complesso. questo Man From Utopia si avvicina sinistralmente ai luoghi da dimenticare dell'itinerario di Zappa. E per il pubblico italiano, il tratto più interessante è con tutta probabilità la copertina: che rievoca sarcasticamente un famoso concerto milanese, con pubblico scalmanato, polizia e lacrimogeni sullo sfondo, e un Frank Zappa trasfigurato in semidio heavy metal, che con una mano spacca la chitarra e con l'altra regge uno scacciamosche, per combattere feroci stormi di zanzare.

The London Symphpny Orchestra: Frank Zappa Vol. I (1983)

Pubblicato in veste serissima. con copertina grigia e austera. è questo il primo lavoro d'una serie di opere colte, da lungo tempo nell'archivio dei desideri zappiani. Per una volta, la parodia e persino – ma non sempre – l'ironia sono tralasciate in favore d'un complesso gioco orchestrale. E l'orchestra non è una qualsiasi, ma la prestigiosa London Symphony Orchestra; diretta non da Zappa, com'era prevedibile, ma dal giovane e quotato Kent Nagano.

È tutta musica tonale, secondo le dichiarate preferenze di Zappa, anche nei suoi momenti più impegnati. Ma nulla di simile a certe orripilazioni pseudosinfoniche offerte a suo tempo dal rock «classico» che fu. Questa è una costruzione musicale inappuntabile, intricata ma limpidissima nelle sue linee costitutive, orchestrata – dopo tutto – da un riconosciuto maestro arrangiatore. I ritmi scelti vanno da un tipico 6/8 jazzistico al 4/4 della disco fino a tempi quasi intrascrivibili; e la ricca mole di percussioni usata rimanda in parte al referente delle Ionisation di Varese, in parte all'influenza evidente di Strawinsky: che e presente in ispirito in brani come Pedro's Dowry o nel secondo movimento di Mo Herb's Vacation.

L'ascolto iniziale e arduo, e il primo accostamento potrà sembrare letale; ma al secondo, e poi di seguito, si comprende come questa sia in fondo una quintessenza di musica zappiana.

È eccessiva, mastodontica, con la sua orchestra di 102 elementi, ma nella sua assoluta, indicibile freddezza mostra senza compromessi la caratteristica saliente del compositore Zappa: la razionalità, la precisazione matematica dei nessi sonori. Chi poi non volesse operar confronti, non ha che da valutare da un lato l'orchestra burlesca, volutamente hollywoodiana, di 200 Motels, dall'altro quella più studiata, ma anche meno precisa, di Orchestral Favourites. Per non dire Lumpy Gravy; ma da quel monumento alla trasgressione più pura ci separa ormai l'abisso incolmabile d'un quindicennio. Dopo tutto, questo è, oggi, il migliore degli Zappa possibili.