Frank Zappa: Grande pantomima per un re straccione

By Maurizio Baiata

Ciao 2001, July 23, 1972


« Non è esatto dire che voglio distruggere il sistema. Voglio modificarlo al punto che funzioni correttamente ». Parlare di politica all'interno del fenomeno musica. le moderno risulta molto difficile, perché implica uno svisceramento ed una conoscenza completa degli ideali e delle movenze di base che non ci è possibile conoscere a fondo nei singoli artisti e nella loromusica.

Nel caso di Frank Zappa è lui stesso a venirci in aiuto con la sua musica, i suoi atteggiamenti ed i testi, fondamentali, delle sue composizioni: ma il trafiletto che riportiamo inizialmente sintetizza concretamente i suoi intendimenti.

Con ciò sorge la difficoltà di introdurre e di limitare in qualche modo il cosmo musicale e sociale del Frank demonio e corruttore di istituzioni morali e strutture musicali: intendendo Zappa liberare mediante il tramite musicale l'uomo in tutte le sue espressioni individuali e collettive, è evidente che la sua musica non possa essere che totale. Per questo sosteniamo che non si possa parlare di Zappa in una o più delle sue accezioni musicali, cosi come è stato fatto (in modo molto sincero ed autorevole bisogna dire) in uno dei recenti numeri di una rivista musicale in cui Giuseppe Dalla Bona ha lavorato su Zappa pietrificandone la personalità a cavallo di due delle sue matrici, quella del « compositore », quindi di riflesso del jazzista, e quella del « producer », quest'ultima con un esame molto approssimativc che però è spiegabile tenendo conto delle limitazioni che la rivista impone. A noi sembra che Zappa sia molto, molto di più e pertanto vogliamo procedere dall'analisi dei singoli albums da lui prodotti, partendo dal discorso di fondo inerente politica e società.

Siamo al momento della pubblicazione di « Freak out! »: stando alla stessa presentazione dell'album, « freaking out » sta a significare il processo con il quale ci si può liberare degli standards restrittivi, dei propri archetipi mentali e delle etichette sociali, per nascere nella creatività, cioè nell'espressione musicale (nel caso). verso la quale quanti sono pronti a ricevere percettivamente. possono avvicinarsi e proseguire su quella strada di pensiero e di feeling come « Freaks », cioè come uomini lucidi e liberati.

Brevissima retrospettiva: Zappa in quel periodo usciva dal collège e si iscriveva al primo anno dell'Accademia, dove incontrava un nucleo di pazzi, tra i quali Don Van Vliet, futuro Captain Beefhaert e la formazione originaria del primo album a venire. In compagnia di Ray Collins, Jim Black, Roy Estrada. Elliot Ingber e Beefheart, Frank inizia ad intravedere uno sbocco alla sua iconoclastia sonora, sviluppatasi in lui sin dall'infanzia con l'ascolto delle incisioni di Edgar Varèse.

E il sound di « Freak out » rcora non presenta implicazicni elettroniche o sperimentali. ma svolge invece delle tenatiche che, attraverso la !ervncia e la satira esasperata c'el manierismo della tradizione musicale americana e dei cstumi maccartisti, residui degli anni '50, trovano luce nel '66 in composizioni che rifiutano. parodiandolo, un certo rock & roll di maniera e quella tradizione caramellosa lascito dei vari Sinatra e dei musicals di Broadway. Tutti i titoli dell'album si equivalgono, ma ci limitiamo a citarne due, uno per il suo testo, « Who are the brain police », e l'altro per i suoi contenuti di ricerca, « The return of the master magnet », suite dove già vibra lo Zappa ei magici connubi con Beefheart.

Una visione già più cosmica e corale si annuncia con « Absolutely free », album del primo panorama zappiano dove ai momenti di acida satira si alternano le prime demoniache invenzioni, i primi passaggi lirici densi di quell'eloquenza ritmica fatta di impasti nevrotici ed antiteci fra le voci e gli strumenti, che saranno propri dello Zappa della maturità (per quanto possa sembrare restrittiva questa parola): la denuncia esiste ancora, si esplica rei testi e nelle trame ritmiche, si fa parte portante di un discorso che l'album evidenzia unitario, spontaneo e di getto saprattutto dove, con la ricerca di nuove tonalità e di nuove inccerenze di fraseggi e di passaggi, si allarga il tutto ad una visione che trascende i confini dei vari pezzi; composizioni che vanno « bevute » nella loro totalità, se mai con un momento di particolare attenzione per « Brown shoes don't make it », dove l'esortazione rivolta all'americano medio a commettere incesto con la propria figlia dodicenne mostra la massima delle liberazioni dei tabù sessuali, in quel contesto dissacrante proprio di Zappa.

Un accenno appena per « We're only in it for the money », concepito strutturalmente come satira ai Beatles, ma non privo di momenti di genialità, ed a « Ruben & Jets », album fine a sé stesso, rivolto contro i gruppi del facile commercialismo, mediocri e montati dalla pubblicità.

Fra queste due opere minori si colloca il momento più significativo della prima attività zappiana, il mitico « Lumpy Gravy », album introvabile e del quale riportiamo alcune considerazioni di ordine informativo. Si tratta di un tentativo approfondito di fondere la cultura rock con gli insegnamenti di Varèse, svolto con l'aiuto di un'orchestra sinfonica, preludio quasi al recente « 200 Motels ».

Abbiamo parlato fino ad ora di un possibile primo periodo della esplicazione zappiana: ci troviamo ora di fronte (ed il nostro viaggio durerà circa tre anni) al momento più intenso di tutta l'attività musicale di Zappa, già orientata verso un approfondimento del proprio microcosmo ritmico e quindi leggermente al di là delle caratterizzazioni di sapore satirico. Sempre parlando in termini relativi, sorge la necessità di dare delle possibili matrici al periodo in esame, la cui componente primaria sarà una certa impostazione jazzistica. con la specifica adozione di determinati ritmi ed armonie. che però supereranno l'orizzontalismo swingante del jazz tradizionale e raggiungeranno gli esperimenti globali e comuni alla nuova attività jazzistica degli anni '70.

Cominciamo allora ad esaminare « Uncle Meat », primo istante della new thing zappiaa, album doppio, dove una prima parte si presenta come maturazione di schemi informali e dadaistici, con brani pilcta in « Sleeping in a jar » e « Mister Green Genes », ed una seconda comprendente la famosa « King Kong » che si estrinseca in nuove tensioni più jazzate e sassofonistiche, in cui Ian Underwood e la sua presenza strumentale coincidono con il conseguimento concreto di una nuova eleganza jazzistica, ricca di soluzioni fa. scinose a metà strada fra: la breve composizione sinfonica e l'immediato afflato negroide. Tagliamo corto per arrivare ad « Hot Rats ».

Sarebbe bello poter dire che si tratta di una delle cose migliori mai ascoltate dagli ultimi dieci anni a questa parte, ma peccheremmo di retorica, quindi ci limitiamo ad un analisi dei singoli solchi, tutti di eguale importanza, anche se di derivazione diversa.

I vari pezzi sono proiezioni dinamiche di gemme stellari sopra un'intelaiatura tonale fatta di orgasmi continui, di un « mondo di plastica » sul quale Frank Zappa, re straccione e la sua magica corte dei miracoli sorridono amaramente, alla ricerta di sonorità vibranti e preziose, di ceselli armonici fatti di spazi e di tempi astrusi, di cosmiche navigazioni ritmiche. E', in altre parole, il massimo. Citiamo pezzi e formazioni. Oltre a Zappa ed Underwood che sono presenti in tutti i solchi, in « Peaches in Regalia » lavorano: alla batteria Ron Selico (ora nell'ultima formazione di Mayall), al basso Shuggie Otis (che ricordiamo in una famosa session bluesistica con Al Kooper).

La famosa « Willie the pimp » con alla voce Beefheart (che estrinseca qui finalmente una collaborazione sotterranea sempre esistita nei precedenti albums), Don « Sugarcane » Harris al violino (presente nei lavcri più significativi del Mayall più recente), alla batteria John Guerin ed al basso Max Bennett (due dei maggiori jazzisti americani della nuova leva).

In « Mr. Green Genes », ripreso da « Uncle Meat » troviamc Paul Humphrey alla batteria e Bennett come al solito al basso. « Little umbrellas »: Guerin (dr), Bennet (bs). Discorso a parte per « Gumbo Variations », pezzo perfettamente equilibrato fra i tre assoli di Underwood al sax, di Harris al violino e di Zappa alla chitarra. dove maniera jazzistica ed intendimenti aerei trovano il fulcro di coesione e di incontro.

In « It must be a camel » troviamo un Ponty semplicemente entusiasta dell'esperienza: il violinista si ripeterà, per l'occasione, con uno dei suoi dischi più famosi, appunto « King Kong », sotto l'arrangiamento e la composizione totali di Zappa.

Album stupendo anche il successivo « Burnt weeny sandwich », in cui però, se proprio dobbiamo rivolgergli una critica, si nota una discordanza fra i temi della prima e della seconda facciata. Quest'ultima si compone di una magnifica suite (solo essa necessiterebbe di un articolo a parte) che in pratica sviscera tutti i momenti dello Zappa più cosciente di sé: l'esecuzione dal vivo, oltre a mettere in evidenza il talento innato e spontaneo dei musicisti e specificatamente Don Preston ed Underwood al piano e Sugarcane Harris, che ci dona uno dei suoi più pregevoli assoli di violino. ci mostra uno Zappa estremamente funky, in un assolo di organo swingante e liquido. Un tipo di ricerca più genuina, forse nel senso di più terrestre, si nota in « Chunga's Revenge, successivo abum, che denuncia un certo avvicinamento verso i bues, passione di vecchia data nello Zappa di sempre, e che vede l'entrata come batterista stabile di quell' Ansley Dunbar che sarà poi una delle menti della formazione. Fra i pezzi più significativi dell'intera opera segnaliamo « Twenty small cigars », che nella sua sofisticata eleganza si riallaccia al meglio di « Hot Rats », « Transylvania boogie » e « The Nancy & Mary Music » che estrinsecano intensamente questo periodo di introspezione creativa all'interno di comporenti che si fanno sempre più immediate e vibratorie. Una sintesi strutturale dell'album non ci è permessa per ragioni di spazic, e preferiamo soffermarr:i brevemente su « Weasels ripped my flesh », un album che presenta diverse facce del lavoro zappiano, in quest'occasione non troppo riuscito dal punto di vista della novità, ma fondamentale ai fini della comprensione di un periodo intensissimo quale quello compreso fra il 1967 ed il '69. Materiale a volte troppo complesso, che Frank decise di non inserire nei suoi precedenti lavori e che spazia, in pratica, da epi. scdi tradizionali ad altri di pura elettronica.

Riportiamo alcuni stralci di un'intervista che, a questo punto, ci mostra uno Zappa diverso, il producer industrializzato, il quasi borghese, meno rigido inconsciamente di fronte al mondo consumistico che prima criticava.

 « Da sempre ho preferito la musica alle parole ... la gente ran ha capito la mia musica ... non vedo che male c'è a guadagnare dei soldi ... immaginano la rivoluzione come una specie di carnevale, vai sulla strada, fai baccano, fai il provocatore, allora arriva la polizia, ti picchia, ti sbatte dentro ... ma non ha senso tutto questo ».

Non stiamo a giudicare: il compito è effettivamente troppo pesante per le nostre spalle, ma qualcosa possiamo dire a proposito dei riflessi musicali che le scelte operate da Zappa hanno messo in evidenza negli ultimi albums.

Se Zappa faccia il verso a sé stesso, se la sua vena dissacrante e polemica si sia illanguidita, se la sua ispirazione si sia trovata ad un punto di stallo, è cosa che in pratica trova una sua giustificazione solo come giudizio momentaneo, considerando che il suo ultimo LP, uscito in questi giorni, è stato registrato solo un anno fa.

Non siamo d'accordo con quanti giudicano « Mothers Filimore East June "71 » un album brutto: è piuttosto un passo indietro inevitabile, innanzitutto perché schematizzato e castrato dall'esecuzione live che ci mostra un'approssimativa faccia dell'ultimo Zappa, poi perché anche gli episodi migliori, ripresi da vecchi hits del primo beat americano o dello stesso Zappa trovano una loro giustificazione nell'atmosfera di « act » che aleggia nell'incisione. L'opera sinfonica, il la. voro più ambizioso portato a termine da Zappa è « 200 Motels », le cui sfaccettature risentono di necessità cinematografiche e di una confusione totale a livello ispirativo e compositivo. Mancano in altri termini i contenuti e troppo spesso ci si ferma alla forma. pur restando episodi stupendi come lo scatenato rock-blues « Mistery roach » o l'informale, dadaistica e sinfonica ironia di « Penis dimension ».

Registrato solo un mese dopo il « Fillmore East » è « Just another band from LA », dove però la sfocatezza degli ultimi lavori si acuisce in una dimensione esclusivamente formale, corettistica all'eccesso ed in pratica inutile.

Niente polemica, ma si salvano soltanto alcuni riffs chitarristici nella lunga « Billy the mountain », il che, trattandosi di Zappa, è davvero troppo poco.

Non possiamo quindi, oggi, gioire troppo degli ultimi racconti di questa fata maledetta ed inquietante, i cui gemiti operistici non stregano ed affascinano più, ma che possedeva in sé il potere magico di creare i passaggi più straordinari che la musica moderna ci abbia regalato. Non una mummia vivente, questo demoniaco Zappa, non uno zombie pauroso e scostante, o stanco agitatore dimenti cui manca il vigore e la spontaneità di un tempo, bensi una « Brutta Addormentata » che un nuovo Captain Beefheart un giorno, forse, risveglierà. Almeno ce lo auguriamo.

Maurizio Baiata